“Lì un tempo fioriva il mio cuore” di Filippo D’Eliso, RPlibri editore, 2020
(Recensione di Francesco Improta)
Ci sono modi differenti e spesso contrastanti per definire la poesia e le sue finalità, quella che affiora in questo libriccino, o meglio fiorisce, come suggerisce il titolo, è legata ad uno stato di grazia innocente e alla volontà di chiarire il mistero, la parte oscura che alberga in ognuno di noi, nella speranza, o semplice illusione di trasformare se non il mondo la nostra disperazione in vitalità positiva. Il titolo, Lì un tempo fioriva il mio cuore (RPlibri, 10 €), è già di per sé illuminante; il deittico iniziale lì, accompagnato e amplificato da una generica indicazione di tempo, decontestualizza il dettato poetico, collocandolo in uno spazio remoto, addirittura edenico e in una stagione indefinita e probabilmente illusoria, quella di un’innocenza aurorale. Non che i segni della corruzione, della violenza e del peccato siano completamente assenti ma rimangono a distanza come una minaccia, dalla quale ci si potrebbe difendere in virtù di questa profonda sensibilità che spinge a immedesimarci nel flusso della natura, quasi in una sorta di bagno iniziatico per risorgere, alla maniera di Ungaretti, come “docile fibra dell’universo”.
Anche l’esergo, tratto da Seneca, “Nihil sapientiae odiosius est acumine nimio”, offre una precisa chiave di lettura, consentendoci di accedere a quella semplicità che caratterizza e connota la poesia di Filippo D’Eliso e che non è approssimazione né superficialità banalizzante, ma chiarezza, spogliata da tutti gli artifici intellettualistici e formali e le sovrastrutture ideologiche.
Mi perdo // come carta abbandonata al vento // e alla polvere della deserta distesa. // Nessuno volge il suo sguardo // a cogliere un fiore spezzato. // Così trabocca l’ultima goccia // di linfa nell’infinito.
Versi da cui traspaiono abbandono, solitudine, desiderio di effusione ed espansione; motivi che ritroviamo in quasi tutti i suoi componimenti insieme con un bisogno d’amore e di comunione, una naturale capacità di percepire la bellezza e un insopprimibile desiderio di pace, di memoria vagamente pascoliana (cfr. Uomini pace! Nella prona terra // troppo è il mistero). La poesia di Filippo D’Eliso è decisamente umanistica nel senso che è incentrata sulla sua consapevolezza, vissuta come un dovere oltre che un diritto, di essere uomo tra gli uomini e di partecipare a questa vicenda il più delle volte dolorosa, tragica, assurda ma anche meravigliosa, nonostante in noi sia ormai atrofizzata la capacità di stupirci, che è la vita umana. Sarà sufficiente contare le volte in cui la parola uomo e le sue varianti (individuo, persona, gente, umanità con i loro rispettivi aggettivi) compaiano nei suoi versi per rendersi conto della veridicità di tale affermazione per cui accanto al Seneca dell’esergo vorrei citare il Terenzio dell’Heautontimorùmenos: “Homo sum et nihil humani a me alienum puto”. Si rilevano echi leopardiani soprattutto nei primi componimenti laddove l’autore interroga le stelle e la luna o nel rifugiarsi nella felicità innocente e spensierata dell’infanzia e anche in alcune dittologie ridenti e tristi, così vicina ai “ridenti e fuggitivi” della Silvia leopardiana. Tra le sue fonti non manca, e non poteva mancare, Pier Paolo Pasolini, che nella sua vasta attività di intellettuale, poeta e cineasta, gli offre più di uno spunto, penso ai campi di grano, ricordati anche da F. De Gregori nella bella canzone a lui dedicata, alla scomparsa delle lucciole da Roma a segnalare la fine di un’epoca di autenticità e di schiettezza e al film Accattone, dove il protagonista, uno straordinario Franco Citti, chiede a Stella, una prostituta dal volto angelico, di indicargli il cammino. A livello tematico vorrei ricordare nell’autore anche la presenza di una certa coscienza ecologica: Ma se sto morendo, giorno dopo giorno, // intossicato dall’aria e avvelenato dall’acqua // divento alga, // un filo d’erba sbattuto dal mare // nel mistero del destino
Mentre la poesia, intitolata Nostalgia, acquista un tono profetico, sembra che sia stata scritta in quest’ultimo trimestre:
Nessuno sa come soffochiamo // tra quattro mura. La voglia incontenibile // di uscire fuori dalla gabbia // per non morire…
A questo punto per onestà intellettuale devo riconoscere che l’amicizia, l’affetto e la stima che mi legano a Filippo D’Eliso, che agli inizi degli anni Ottanta è stato tra i miei più brillanti alunni, mi hanno indotto a essere un po’ indulgente, nel senso che ho sorvolato su alcune sbavature e ingenuità soprattutto linguistiche, nel senso che talvolta l’elezione lessicale non è la più felice, ma si sa che la “forma non si accorda // molte fiate a l’intenzion de l’arte”. Inoltre questi componimenti sono stati scritti tempo addietro, tra l’83 e il ’90, quando una sete inesauribile di bellezza lo portava ad attingere senza misura a fonti differenti e a chiedere l’intervento e il patrocinio di più muse finché sarà Euterpe ad accogliere il suo invito e Filippo D’Eliso da allora si è dedicato prevalentemente se non esclusivamente alla musica e ne ha fatto la sua professione, ricca di tante soddisfazioni. Vorrei chiudere queste mie brevi osservazioni riportando interamente un suo componimento, L’attesa, dove reminiscenze pasoliniane e montaliane si rincorrono e si sovrappongono.
Nell’attesa della nuova luce // trascorre insonne la notte. // Sono un uomo che sogna oltre la siepe // un ritorno alla terra // vissuta in un altro corpo // guardata con altri occhi. // Credo ancora nella freschezza dei campi // di grano, nelle corse sfrenate // attraverso le pozzanghere, // caderci dentro per poi soffermarsi al sole // a ridere di noi compagni di gioco // sotto la pioggia e nella gioia // con i sorrisi di chi si ferma ancora a sognare.